I 

Da quasi un mese la Royal Majestic stava traversando l'oceano Atlantico per trasportare bestie, merci e passeggeri nel Nuovo Mondo. Era partita da Plymouth in un freddissimo pomeriggio alla vigilia del nuovo anno, e avrebbe fatto rotta a New Orleans. A bordo avevano tutti un biglietto di sola andata, per un viaggio di sei settimane; ciascuno portava con sé il proprio bagaglio di dubbi, paure, speranze.
Tra i numerosi passeggeri vi erano anche la vedova Mary Audrey Clifford e sua figlia, l'appena diciottenne Celia. Le due donne erano accompagnate da Thomas Parker, coetaneo e amico d'infanzia di Celia, che aveva in tasca una modesta somma di denaro datagli da suo padre per poter iniziare la carriera di banchiere nella nuova filiale della Southwest Bank of England a St. Francisville, una cittadina distante solo qualche ora di carrozza da New Orleans.
Come molti altri giovani ambiziosi del suo tempo, Thomas contava di fare fortuna in pochi mesi nel Nuovo Mondo per poter rientrare al più presto nella natale Hertfordshire, in Inghilterra, dove sognava di condurre una vita agiata. Durante quelle lunghe settimane di viaggio aveva messo a punto tutti i dettagli del suo progetto per arricchirsi, sfruttando i bisogni di crescita economica della media borghesia di origine inglese che abitava a St. Francisville, ma giurando al contempo di non stringere mai rapporti commerciali con quegli "schiavisti piantatori di cotone".
Thomas odiava gli americani perché avevano tradito la corona britannica con le loro sciocche idee di indipendenza e perché, secondo lui, non avevano il senso dello stile, le maniere né i modi raffinati degli inglesi. Inoltre, l'Inghilterra si era emancipata già da quasi trent'anni dal giogo della schiavitù, e il fatto che questa esistesse ancora negli Stati Uniti del Sud era ai suoi occhi la prova dell’inferiorità, nonché del livello di abbrutimento e di inciviltà di quei “selvaggi ribelli”, come gli piaceva chiamarli.
Quella sera d'inizio febbraio erano pochi i passeggeri che camminavano sul ponte della nave.
 

In una sala ristorante ormai semideserta, Celia e Thomas stavano giocando una partita a carte sotto lo sguardo supervisore della madre di lei. Il fare petulante di Thomas, quel blaterare scandito da invocazioni e frasi patriottiche cariche di risentimento e pregiudizi contro gli americani, stava annoiando più del solito la trasognata Celia, che per educazione non osava mai confessare al suo amico quanto monotoni e privi di acume fossero i suoi discorsi.
Thomas non la finiva di elogiarsi per la facilità con cui avrebbe messo nel sacco tutti quegli americani da strapazzo, certo di guadagnare in meno di un anno il doppio della fortuna di qualsiasi schiavista grazie alla sua spiccata intelligenza e al suo innato senso degli affari.
«Tocca a te, Celia» esclamò, scuotendola dai suoi pensieri. «Devi tirare!»
Celia si affrettò a lanciare i dadi sul plateau. Una mano infelice.
«Hai perso, mia cara!» annunciò Thomas trionfante, mostrando le proprie carte.
Celia lasciò scoperto il proprio gioco, mollemente. I suoi pensieri erano altrove.
«Vinci sempre, Thomas» intervenne Mrs. Clifford, che era seduta in poltrona accanto ai due giovani.
La donna era intenta a ricamare, ma in realtà non si era persa una mossa dall'inizio della partita. Lei non giocava mai perché diceva che, per una dama della sua età, le partite a carte erano sconvenienti, tuttavia Celia sospettava che il vero motivo era che a sua madre non piaceva perdere: si dava il caso che la donna non fosse una giocatrice fortunata, né astuta.

«Neanche il mio Henry sapeva giocare così bene a poker e discutere al tempo stesso di politica» sorrise Mrs. Clifford.
A quelle parole Celia scattò in piedi, paonazza in volto; serrando i pugni, si congedò rapidamente con la scusa di essere stanca.
Thomas restò interdetto, le mani a mezz'aria già pronte per rilanciare le carte, colto alla sprovvista dall'improvvisa decisione dell'amica di lasciarlo solo con sua madre.
Rifugiatasi nella propria cabina, Celia scoppiò in lacrime. Prese il ritratto di suo padre tra le mani e lo osservò, singhiozzando e domandandosi perché sua madre fosse riuscita a superare quel lutto così in fretta mentre lei no. Dopo qualche minuto di silenzio assorto e contemplativo, le sue mani tremanti riposero il prezioso oggetto sopra il comodino.
Celia chiuse gli occhi, e nella sua mente apparvero subito le immagini della soleggiata brughiera inglese nell'Hertfordshire, dove era nata e dove conservava i migliori ricordi con suo padre, prima che questi morisse di tifo nell'anno appena trascorso. Nei ricordi appariva talvolta anche sua madre, giovane, bella, ridente e piena di vitalità, tale e quale a come era adesso, anche se ora aveva qualche chilo e ruga in più.
Quando riaprì gli occhi, il soffitto tetro della cabina l'imprigionò di nuovo nella realtà: quel cottage solitario nascosto tra le colline ormai non rappresentava altro che il suo passato, il quale non era destinato a ritornare.

«Celia» sua madre irruppe nella stanza, «vai a scusarti subito con Thomas! Non sta bene congedarsi in maniera così rozza come hai fatto tu.»
«Nella vita ci sono cose più importanti dell'etichetta, madre» rispose lei, sospirando.
«Assolutamente no! Niente è più essenziale dell'etichetta per noi inglesi. Ora, vai a salutare Thomas come si conviene a una signorina della tua età, e poi torna qui.»
Celia sbuffò, ma ubbidì, cosciente del fatto che non avrebbe avuto pace fino a quando non avesse fatto come diceva sua madre. La donna ci teneva alle buone maniere, che considerava la scorciatoia più adatta per trovare un buon partito.
Dopo la morte del marito, Mary Audrey aveva venduto la casa dove sua figlia era nata e cresciuta, insieme a tutti i mobili e alla maggior parte dei loro averi, e di punto in bianco aveva deciso di trasferirsi in America, dove sua sorella Elizabeth, che tutti chiamavano Betty, viveva già da più di vent'anni.
Ritenendosi ancora troppo giovane e bella per restare vedova a vita, Mrs. Clifford aveva intenzione di contrarre presto un nuovo matrimonio, questa volta fortunato, nel Nuovo Mondo, con qualcuno che non fosse al corrente dei debiti nei quali suo marito l'aveva lasciata quando, ammalatosi di tifo, aveva smesso di lavorare.
La donna pregustava la scena nella quale s'immaginava di tenere banco ai circoli letterari femminili e alle vendite di beneficenza, ammirata da tutti per essere una seducente e raffinata vedova inglese.

Mentre passeggiava sul ponte della nave per andare a scusarsi con Thomas, Celia osservava le onde alte dell'oceano che si infrangevano a poppa con un rumore assordante; quel paesaggio aspro e monotono, suo compagno da quattro settimane, strideva con le immagini che aveva ancora in mente della sua terra natale, quell'angolo di paradiso verdeggiante e quieto al quale era stata strappata all'improvviso e senza il suo consenso, solo per un capriccio della madre.
Per fortuna, un pezzo della sua infanzia aveva deciso di imbarcarsi con lei in quell'avventura: Thomas era da sempre il suo migliore amico, il fratello che non aveva mai avuto e, nonostante i suoi mille difetti - primo fra tutti l'arroganza -Celia gli era estremamente affezionata, ed era stata felicissima quando aveva saputo che sarebbe andato con loro a St. Francisville per qualche tempo, pur con l'intenzione, dopo aver guadagnato a sufficienza, di rientrare un giorno in Inghilterra.
Lo stridio della catena di ferro, attaccata all'albero della nave e ondeggiante al vento, la distolse da quel pensiero per richiamare in lei l'immagine degli schiavi incatenati, forzati a lavorare nei campi, che presto avrebbe visto nella lontana terra chiamata Louisiana… la terra verso cui era diretta.
Celia aveva letto sui giornali inglesi che in America, come in Inghilterra fino a trent'anni prima, le famiglie di schiavi venivano separate: i figli strappati dalle loro madri, gli uomini venduti allo stesso prezzo degli animali, i vecchi e i bambini costretti a lavorare nelle piantagioni senza alcuna pietà, a suon di frusta. Il valore di una persona era dato

dalla sua capacità fisica di svolgere compiti ingrati e dalla sua docilità, come se si trattasse di una bestia da soma.
Non avendo mai visto nulla del genere con i propri occhi, Celia si domandava di continuo come avrebbe reagito dinanzi a tanta crudeltà. Come potevano gli schiavisti frustare e torturare altri esseri umani di giorno, e poi dormire sonni tranquilli la notte? E come potevano le donne di lag-giù accettare che i loro mariti fossero così spietati?
Ma quella non era la sua sola angoscia: Celia si domandava anche come lei e sua madre si sarebbero guadagnate da vivere nel Nuovo Mondo, e come avrebbero trascorso le loro giornate in casa di zia Betty.
Il peso di quei pensieri era tale che a volte le sembrava di avere la testa in procinto di scoppiare: allora cercava di distrarsi, giocando a carte con Thomas, perdendosi nelle avventure di un romanzo, o ancora vagabondando sul ponte della nave per osservare il viavai dei passeggeri e fantasticare sulle loro vite.


L'ultima parte della traversata parve trascorrere più lenta della prima. A poco a poco, le nubi che avevano accompagnato la quasi totalità del viaggio lasciarono spazio a un cielo più soleggiato, finché all'alba dell'undici febbraio 1832 la vedetta della nave svegliò tutti i passeggeri con voce tonante, gridando: «Terra! Terra!»
Celia si alzò di soprassalto, s'infilò alla svelta una veste da camera e spalancò la porta, dimenticandosi dei pudori dei quali sua madre le aveva sempre parlato. Si diresse sul ponte correndo, e un ampio sorriso le comparì sul volto quando finalmente la vide: l'America.

Un punto di terraferma, vago e sfocato nella foschia dell'alba, eppure inconfondibile. Un brivido di eccitazione le corse lungo la schiena e tutt'a un tratto sentì l'aria fresca del mattino pungerle il viso. Corse allora a rifugiarsi in cabina, sperando di non aver preso un malanno e, soprattutto, pregando che sua madre non la sorprendesse in quello stato così poco decoroso.


Gli ultimi due giorni di navigazione sembrarono non passare mai. Dopo una sosta di un giorno a Savannah, il viaggio proseguì, terminando a New Orleans il quindici febbraio.
Quando attraccarono al porto, Celia iniziò a sentire il cuore batterle forte in petto dall'entusiasmo. La nave sbuffò, suonando così forte da stordirla; quindi cominciarono le operazioni di sbarco e i controlli sanitari e doganali per ogni singolo passeggero: durarono fino al tardo pomeriggio. Celia si affacciò sul ponte della nave per scrutare lo sciamare lento e stanco degli innumerevoli passeggeri, delle bestie, delle merci; i marinai si davano un gran da fare per scaricare i bagagli, dialogando con un accento graffiante e gesticolando come attori comici in scena.
Tutto le sembrava immenso e in disordine, come un alveare operoso.
Nel momento in cui posò i piedi al suolo, Celia si chinò, baciando quella terra che sarebbe dovuta diventare la sua casa, benedicendola e sperando di ricevere in cambio la stessa benedizione.
La comitiva fu accolta da un amico del padre di Thomas, un certo John Wilkinson, al quale Mr. Parker aveva scritto qualche mese prima, pregandolo di accettare suo figlio come apprendista per l'apertura di una nuova filiale di banca a St. Francisville. Per onorare il legame con il suo vecchio amico, e rassicurato dalla discreta somma posseduta da Thomas per il progetto, Mr. Wilkinson aveva accettato di insegnargli il mestiere.
Scozzese di nascita, l'uomo aveva vissuto l'adolescenza e la prima giovinezza a Londra, mescolando il suo forte accento di Edimburgo con quello londinese. A vent'anni, con quattro soldi in tasca, aveva deciso di tentare la fortuna imbarcandosi sulla stessa nave che aveva portato Celia in America.
In dieci anni quel suo bizzarro accento anglo-scozzese si era piegato alla possente melodia del dialetto americano del Sud, creando uno strano miscuglio che confondeva chiunque conversasse con lui; chi non lo conosceva si domandava infatti quali fossero le sue vere origini.
Intraprendenza, una spiccata intuizione e uno smisurato ottimismo: queste erano le doti di Mr. Wilkinson, che aveva molta stoffa per gli affari e riusciva sempre a trovare il giusto equilibrio tra il rischio e il beneficio. Non aveva mai posseduto degli schiavi, e quel concetto era sempre stato lontano dal suo modo di pensare, ma aveva messo presto da parte i suoi valori quando aveva capito che i pesci grossi nuotavano nelle piantagioni di cotone e canna da zucchero. In poco tempo era stato capace di farsi apprezzare dai latifondisti, intessendo con loro fitte relazioni personali e professionali e diventando a poco a poco tra i più ricchi e rinomati banchieri della Louisiana: un vero magnate dell'investimento bancario, nonché membro rispettato della società benestante del Sud.
La sua fortuna gli aveva permesso di comprarsi una lussuosa villa nel pieno centro storico di Baton Rouge; inoltre possedeva la più bella casa di St. Francisville. Era lì che abitava, preferendo la familiarità di quella cittadina all'anonimato della capitale, ed era lì che di recente aveva aperto una nuova filiale per espandere il proprio controllo finanziario anche sulla piccola e media borghesia di origine inglese.
Superati già i trent'anni, ancora scapolo e donnaiolo, Mr. Wilkinson era sì famoso per avere doti di abile banchiere, ma pure per lo sguardo di ghiaccio dei suoi penetranti occhi grigi.
Il suo vero vanto, però, erano dei ridicoli boccoli fra il biondo pallido e il rosso carota, che manteneva lucenti immergendoli con regolarità in un'essenza a base di zenzero. A detta sua, erano questi a mandare in estasi molte donne. Tutto sommato John Wilkinson era piuttosto bello d’aspetto, ma il suo fascino aveva qualcosa di volgare che lo rendeva seducente solo agli occhi delle donne non proprio perbene, o di coloro che in un uomo non apprezzavano la raffinatezza, bensì la lussuria.

Mr. Wilkinson sapeva come attirare l'attenzione, grazie a un modo di vestire sempre all'ultimo grido. Era stato sorpreso innumerevoli volte a sbirciare nei giornali di moda maschile per informarsi sulle ultime tendenze, e il suo stile da dandy non passava inosservato. Uomo vanitoso e sicuro di sé, amava regalare a chiunque gli stesse intorno un'immagine impeccabile di se stesso: portava lunghi baffi a punta perfettamente simmetrici, al pari dei denti, che curava con paranoica attenzione per essere in grado di sbeffeggiare al meglio i suoi concorrenti e affascinare le donne, nonostante masticasse tabacco dalla mattina alla sera. Fu proprio sfoggiando un sorriso gioviale che l'uomo li accolse, vestito di tutto punto. 

«Thomas Parker!» esclamò allegro, stritolandogli la mano. 

«John Wilkinson!» rispose Thomas, cercando di competere con lui in esuberanza e buonumore. «È un piacere fare la vostra conoscenza. Mio padre vi manda i suoi più cari saluti, ho anche una lettera per voi da parte sua.» 

«Siete il suo ritratto da giovane» incalzò l'uomo, senza starlo a sentire, dandogli una poderosa pacca sulla spalla. «Al diavolo la lettera di vostro padre! Presentatemi piuttosto queste squisite signore che portate con voi.» 

La madre di Celia si lasciò andare a una risatina nervosa. 

«Piacere di incontrarvi, Mr. Wilkinson, sono Mary Audrey Clifford. Thomas non ha parlato d'altro che di voi durante il nostro lungo viaggio.» 

Mr. Wilkinson scansò Thomas e si affrettò a baciare la mano che la donna gli stava porgendo. 

«Madame, sono incantato di fare la vostra conoscenza. Che piacere poter ascoltare di nuovo il dolce suono dell'accento inglese da una dama di così squisito aspetto, dopo tanti anni d'abbrutimento qui in America, ah ah ah!» 

Mrs. Clifford rise in modo sciocco, lusingata della sfilza di complimenti del buffo scozzese. Poi lo sguardo dell'uomo si posò sulla creatura che le stava accanto, e alla donna tornarono in mente le regole dell'etichetta. 

«Perdonatemi, non vi ho ancora presentato mia figlia Celia.» 

Mr. Wilkinson la squadrò a lungo dalla testa ai piedi, mentre lei gli porgeva la mano. 

«La vostra bellezza mi abbaglia, Miss Celia» osò, lasciandole un bacio appiccicoso sulla pelle, mentre lei diventava rossa come una fragola. 

Sua madre rise nervosa davanti allo sguardo lascivo dell'uomo su sua figlia, e tentò di catturarne di nuovo l'attenzione, aggiungendo con inappropriato entusiasmo: 

«Oh, Mr. Wilkinson, è davvero un piacere essere accolte da un conoscente del nostro caro Thomas, anziché da uno sconosciuto qualsiasi.» 

Mr. Wilkinson fece l'occhiolino a Celia, poi prese subito sua madre a braccetto, scortandola verso una diligenza privata che pagò di tasca propria, compiaciuto di poter condividere il viaggio in compagnia delle due inattese, affascinanti dame. 

Il mezzo partì pochi minuti dopo per St. Francisville. 

Mrs. Clifford e Mr. Wilkinson sembravano essere entrati subito in sintonia. L'uomo volle sapere tutto di loro e le rassicurò del fatto che avrebbero di certo apprezzato la Louisiana per molti aspetti: dalla gentilezza della gente al buon cibo, fino al clima incredibilmente mite - nonostante la violenza degli uragani, i quali gli fornirono un ottimo spunto per lodare gli eroici, ricchi gentiluomini del posto, che si offrivano ogni volta di riparare le case dei più abietti per poter permettere loro di ricominciare una nuova vita. Quel sottile elogio autoreferenziale non mancò di emozionare Mrs. Clifford, mentre Celia constatava una realtà ben diversa lungo la strada, osservando contrariata le innumerevoli case di contadini ancora sfondate a causa dell'ultimo tornado e rabbrividendo al pensiero di quanta morte e distruzione quei terribili fenomeni naturali infliggessero re-golarmente alla popolazione, flagellando ogni anno il golfo del Messico. Sua madre pareva debordare di un'irruente vivacità: tutto le risultava gradevole alla vista, non vedeva alcun difetto nel paesaggio che scorreva davanti a lei, ipnotizzata com'era dallo charme del suo interlocutore, dal quale non scollava gli occhi di dosso. 

In tarda serata i quattro giunsero davanti a una graziosa pensione dai balconi fioriti nel cuore di St. Francisville, dove Celia e sua madre pernottarono, prima di potersi presentare, l’indomani, a casa della zia Betty; Thomas e Mr. Wilkinson invece sparirono nell'ombra, diretti verso la villa del ricco banchiere, che si era offerto di ospitare il suo apprendista per i primi tempi. 

«Perché non possiamo andare direttamente da zia Betty?» chiese Celia, contrariata dal dover condividere la propria stanza con sua madre una notte in più. 

«È troppo tardi, mia cara, non possiamo disturbarla nel cuore della notte, non sta bene» replicò lei, riguadagnando una voce falsamente dignitosa. «Andremo da lei domattina, dopo aver riposato ed esserci rinfrescate.» 

Celia era impaziente di conoscere la zia. Non sapeva molto di lei, nemmeno l'aveva mai vista, ma sentiva che doveva avere un carattere molto forte. Tanti anni prima, la donna si era innamorata di un americano che aveva conosciuto a Londra, e per lui aveva agito contro il volere dei suoi genitori, seguendolo in Louisiana per sposarlo e passare insieme i successivi quarant'anni di vita coniugale. Dal momento in cui aveva lasciato l'Inghilterra, la donna non vi aveva più fatto ritorno, perdendo i contatti con la famiglia a eccezione di sua sorella Mary Audrey, con la quale aveva intrattenuto una lunga corrispondenza a intermittenza. A Celia la storia d'amore tra sua zia e lo zio Alfrid piaceva moltissimo; viceversa, sua madre aveva sempre criticato la sorella ribelle per non aver dato ascolto ai genitori e aver infangato la reputazione della famiglia, costringendo lei a contrarre un matrimonio meno fortunato del previsto per via dello scandalo che era stato provocato. E ora Celia era curiosa di vedere la donna della quale per anni si era parlato in casa loro, senza che avesse mai avuto la possibilità di conoscerla. 

Il giorno dopo Celia e sua madre si recarono finalmente a casa della zia, ritrovandosi dinanzi a una piccola abitazione in stile coloniale circondata da siepi piuttosto selvagge e piante d'acacia. Una graziosa veranda in assi di legno ospitava due sedie a dondolo pitturate di un delizioso colore azzurro, e una bandiera americana sventolava su una banderuola posizionata di lato. Il giardino era un po' trascurato. Cinque o sei gatti spelacchiati completavano l'insieme, aggirandosi qua e là in cerca di cibo, da una pianta all'altra. 

Quando aprì la porta, dopo un'interminabile attesa, la zia Betty e sua sorella si squadrarono l'un l'altra, riconoscendosi a stento. S'installò un istante d'imbarazzante silenzio, subito infranto da uno scroscio di risate, invocazioni, baci, abbracci e dallo squillare delle voci acute, che frastornò le orecchie dell'intero vicinato. Elizabeth era molto diversa da Mary Audrey: gracile di costituzione, i lunghi capelli biondo-grigi erano raccolti in una treccia. Portava occhiali rotondi e spessi, che ingrandivano il suo sguardo ma le rimpicciolivano il viso smunto, e parlava con un accento americano, utilizzando a volte espressioni strane che né Celia né sua madre capivano, con grande disappunto di quest'ultima. Entrate in salotto, Celia fu accecata da una luce immensa, proveniente dal giardino incolto del retro, che sfolgorava di una bellezza selvaggia al di là delle ampie finestre, oltre le quali si potevano intravedere gli arbusti rampicanti, i vasi di fiori rinsecchiti e dei progetti di bricolage lasciati a metà. 

Mentre la zia serviva loro del tè zuccherato, le due ospiti studiavano quel grande spazio luminoso, benché ingombro di oggetti di ogni sorta: dei libri impolverati erano riposti in maniera disordinata un po' in tutti gli angoli, e delle buffe piante in vaso erano poggiate qua e là su dei bizzarri panchetti ad altezze diverse. La stanza accoglieva anche un buon numero di poltroncine e piccoli divani in tappezzeria fiorita, un tavolino basso al centro con un posacenere in argento e un'ampia biblioteca in mogano scuro, che correva sull'intera parete tappezzata. Un paio di lampade da tavolo, un immenso tappeto persiano e alcuni specchi sgangherati rifinivano l'arredamento in modo pacchiano. Celia notò inoltre il ritratto imponente del presidente americano Andrew Jackson: un uomo piuttosto magro e anziano con una lunga, buffa capigliatura bianca che lo faceva somigliare a una puzzola. L'intero orientamento estetico della zona giorno assomigliava a qualcosa a metà tra lo stile orientale e quello vittoriano. La cucina era separata dal resto della casa da un corridoio esterno il quale, spiegò la zia Betty, serviva a evitare che eventuali incendi dovuti al caldo eccessivo delle estati afose potessero propagarsi da quel luogo in tutta la casa. Il piano di sopra aveva una stanza da bagno piuttosto moderna e tre grandi camere da letto. Celia sospirò sollevata nel sapere di avere finalmente una stanza tutta per sé, che possedeva un pratico angolo da toeletta, un paravento in stile orientale, un bureau utile per scrivere e studiare e un letto in legno di rosa, alto e adornato da un'infinita collezione di cuscini riccamente ricamati all'uncinetto dalla zia e dotato di pesanti zanzariere. Il resto del mobilio consisteva in un bell'armadio in legno di noce e un'elegante cassettiera dai pomelli in ceramica, ideale per riporre cappelli, bustini e altri capi del guardaroba. 

Quella sera le tre donne rimasero a discutere fino a notte fonda. Celia si divertì molto ad ascoltare le due sorelle, che avevano un'infinità di ricordi di gioventù condivisa da rispolverare e una vita intera da scoprire l'una dell'altra, e notò con interesse l'abisso che le separava nei modi di fare e nel linguaggio. Se da una parte sua madre raccontava come un fiume in piena i ridicoli dettagli del loro viaggio, dall'altra sua zia l'ascoltava paziente, silenziosa e pacata, parlando solo quando necessario e fornendo sempre informazioni interessanti: vedova e senza figli, zia Betty disse che si guadagnava da vivere grazie alla sua incredibile passione per l'uncinetto, che l'aveva resa famosa fino a New Orleans, facendole conquistare negli anni il soprannome di "Betty dalle mani d'oro". Riceveva ordini dalle più ricche famiglie di St. Francisville e dintorni, arrivando a cucire a mano abiti da sposa, coperte, fazzoletti e cuscini. Sapeva trasformare ogni tipo di tessuto in una fine opera d'arte. Celia rimase a guardarla ammirata per tutto il tempo, sperando di poter imparare presto da sua zia quel mestiere che sembrava renderle piuttosto bene, e si domandò se anche lei un giorno avrebbe finito per sposare un americano di laggiù.

In tal caso, sarebbe mai stata felice? 

 

II 

Nonostante l'invasione dell'esuberante sorella, sempre pronta a criticare il suo cattivo gusto in fatto di arredamento, la zia Betty era felice di essere tornata a vivere con qualcuno, pertanto non si lamentava del nuovo equilibrio a tre che la costringeva a sacrificare alcuni dei suoi spazi. Inoltre, era subito entrata in sintonia con la nipote, che si divertiva a chiamare con graziosi appellativi come "tesoro" e "bell'angelo". Per Celia sua zia era una donna adorabile, ed era desiderosa di conquistarne l'affetto: l'aiutava dunque volentieri a riassettare la casa e si offriva di prendersi cura del giardino, con grande disappunto di sua madre, la quale la rimproverava quando restava troppo tempo sotto al sole, temendo che la sua pelle avrebbe potuto scurirsi e le sue mani delicate diventare callose. 

Celia iniziò a dare una mano anche in cucina, osservando sua zia preparare con maestria le deliziose ricette della Louisiana delle quali andava fiera, come le specialità Cajun, oltre a imparare i rudimenti dell'uncinetto e del ricamo, che richiedevano molta pazienza. Un giorno, trovandosi a lustrare le suppellettili in argento che la zia Betty teneva in bella vista nella biblioteca, le capitò tra le mani un bel libro illustrato sulle piante e i fiori della Louisiana, del quale iniziò a sfogliare le pagine con avidità: ne rimase incantata per ore, maturando l'ardente desiderio di vedere dal vivo quelle varietà esotiche che ap-parivano come meravigliose opere divine. Il venerdì successivo al loro arrivo, una visita inaspettata venne a spezzare l'operosa routine quotidiana. Era Thomas. Quando lo scorse sulla porta, Celia gli si gettò al collo, entusiasta di rivederlo. 

«Madre, c'è Thomas!» 

Mrs. Clifford arrivò subito, salutandolo calorosamente. 

«Thomas! Mio caro, che bella sorpresa. Entra!» 

Dopo aver fatto le presentazioni con la zia Betty, il giovane si accomodò in una delle poltroncine e, senza aspettare di essere invitato a farlo, agguantò uno degli scones preparati per il tè da Celia, mangiandolo con voracità. 

«Allora, Thomas, racconta, come vanno le cose da Mr. Wilkinson?» 

«Ebbene, si sono sistemati i bagagli, si è visitata la nuova filiale… » 

«E com'è?» chiese Celia, ansiosa di conoscere le novità dal mondo esterno. Non era ancora mai uscita di casa. 

«Oh, bene, bene, bene… » rispose lui, rimanendo sul vago. «Tutto è ancora da iniziare, ma c'è potenziale. Sì, c'è potenziale… » 

Afferrò quindi altri due scones e si fece servire la seconda tazza di tè. 

«Hai già visto St. Francisville? Com’è? Hai già visitato il centro storico?» 

«Oh sì, è grazioso… molti piccoli commerci… un bel po-tenziale, sì…» 

Celia era delusa dalla mancanza di dettagli e dalla vaghezza con cui Thomas rispondeva alle sue domande. Nel mentre, lui afferrò quello che doveva essere il quinto scone, per mangiarlo con avidità, sotto lo sguardo inquisitorio della sua amica, a cui non era sfuggita la sua mancanza di buone maniere nel non lasciare agli altri il tempo di servirsi. 

«Perché non andiamo tutti insieme a visitare il centro storico di St. Francisville, domani?» propose Mrs. Clifford. 

Celia applaudì con gioia e saltellò con allegria nella stanza, entusiasta all'idea. Thomas invece esitò. 

«Oh beh, non so… ho molto lavoro…» provò a dire, ma le insistenze delle due donne furono tali da farlo cedere in fretta. 

Alla promessa della zia Betty di preparare una bella cena l'indomani per festeggiare la loro prima visita della città, Thomas ritrovò il buonumore e si lasciò invitare. Prima di congedarsi s'infilò il cappello e il soprabito, approfittando dell'ultimo scone rimasto nel vassoio. 

«Allora a domani!» disse, la bocca mezza piena. 

Celia lo accompagnò alla porta. 

«Thomas, sei sicuro di stare bene?» 

«Certamente, perché?» 

«Mi è sembrato che mangiassi come se non avessi toccato cibo da giorni…» 

«Che scemenze sono queste, Celia!» rispose lui, arrossendo fino alle orecchie. «I tuoi scones sono semplicemente deliziosi, tutto qui» si affrettò a replicare, sparendo dalla sua vista in un batter d'occhio. 

Il giorno dopo la comitiva uscì per recarsi in centro a fare delle compere. 

Guardandosi attorno, madre e figlia osservavano i dettagli di quella cittadina, che aveva uno charme diverso dal luogo in cui erano vissute: St. Francisville non possedeva la bellezza delle viuzze tortuose in pietra, delle chiese medioevali e dei giardini antichi a cui erano abituate. Lì tutte le strade erano ampie e squadrate, imbellite da portici in legno sotto i quali si trovavano le boutiques dei commercianti di cotone, spezie, mais, caffè, canna da zucchero e altri prodotti originali, a buon prezzo perché coltivati o fab-bricati nei dintorni.  Le case erano tutte in stile coloniale, come quella della zia Betty: delle shotgun houses in legno, oppure in stile francese. La maggior parte aveva un aspetto recente ed era ben curata: molte erano ornate da balconi abbelliti con balaustre in ferro e fiori o piante rampicanti, che emanavano un profumo dolciastro e talvolta stucchevole, se si contemplavano troppo a lungo sotto il sole. Tutte le verande, grandi o piccole, ospitavano delle sedie a dondolo colorate o degli sgabelli intagliati a mano, sui quali ci si poteva sedere per osservare il passeggio dei gentlemen a cavallo e lo sfrecciare delle carrozze. Ma al di fuori della città, al posto delle verdi colline ondeggianti dell'Hertfordshire, non vi era niente se non la vasta, piatta periferia che si perdeva a vista d'occhio nelle sterminate piantagioni di cotone e canna da zucchero, i cui proprietari vivevano da reclusi nelle loro immense ville, uscendo di rado dai propri confini. 

Mentre visitavano le boutiques, Celia notò quanto gli americani di St. Francisville fossero gentili e aperti verso di loro, pur parlando con un accento buffo e a volte difficile da capire, e che causava spassosi malintesi. Tutti volevano sapere da dove lei e sua madre venissero e dove abitassero. Quando scoprivano che erano le parenti della Betty dalle mani d'oro venute dall'Inghilterra, si mostravano ancora più cordiali e amichevoli. Se Celia era entusiasta di poter conoscere gli abitanti del posto, viceversa Thomas non dava loro troppa confidenza, restando in ombra, soffocato dall'esuberanza di Mrs. Clifford e dal fascino di sua figlia, sulla quale qualsiasi giovanotto puntava gli occhi. A quei pochi che gli domandavano dove lavorasse, borbottava maldestramente di essere socio in affari con Mr. Wilkinson; a quel punto, nessuno osava più chiedergli altro. Celia notò che sul volto del suo amico compariva un'espressione infelice ogniqualvolta questi fosse costretto a parlare o a stringere le mani degli americani; con i commercianti inglesi e gallesi era invece molto più incline alla conversazione. L'uscita terminò comunque nell'allegria e nel buonumore e la cena fu un successo: il tacchino ripieno preparato dalla zia Betty deliziò le bocche di tutti. 

Dopo il pasto, Mrs. Clifford si mostrò particolarmente impaziente di conoscere i dettagli della villa di Mr. Wilkinson, nella quale Thomas alloggiava. 

«Ho sentito dire che la sua casa qui a St. Francisville è immensa, opulenta…» civettò, lanciando a Thomas uno sguardo malizioso. 

Le mani del giovane divennero sudaticce e un colpo di tosse lo tradì, lasciando trasparire il suo nervosismo. 

«Oh, ebbene sì… nulla di speciale, comunque» disse, sopraffatto dalla consapevolezza che gli ci sarebbero voluti degli anni per raggiungere il suo stesso livello economico. Notando il suo imbarazzo, Celia tentò allora di cambiare discorso. 

«Gli americani sembrano essere davvero gente perbene.» 

«Hai ragione, tesoro. Non hanno l'aria di essere così incivili come li descrivono i giornali inglesi. Oh, e avete visto? Non c'è neanche l'ombra di uno schiavo negro! Dio sia lodato!» 

«Madre… solo perché non ne hai visti, non significa che non ce ne siano: gli schiavi si trovano nelle piantagioni» replicò Celia, affranta dalla superficialità e dalla stoltezza di sua madre. 

«Tanto meglio così, mia cara. Che vi restino! Occhio non vede, cuore non duole.» 

«Vogliate scusarmi, signore, si è fatto tardi. E domani si lavora» le interruppe Thomas, alzandosi all'improvviso per recuperare svelto il suo cappello. 

«Ma domani è domenica, Thomas!» 

«Ah, già… Ebbene, ci vedremo a messa. Grazie ancora della cena. Arrivederci.» 

Senza altre storie, Thomas si congedò, lasciando Celia e sua madre attonite per quel brusco sgarro all'etichetta, che prevedeva che l'ospite si fermasse almeno fino al momento del caffè. 

Il mattino seguente i tre inglesi furono accolti con calore dal pastore che vegliava sui parrocchiani di St. Francisville da più di vent'anni, il reverendo Williams: un uomo sulla quarantina, carismatico e dallo spirito incredibilmente vivo ed effervescente.

 

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